Franco Prattico

Comunità libere e senza confini
ma non sappiamo quanto "vere"

La diffusione di Internet ha reso facilissimo e rapido ogni scambio di informazioni e opinioni, provocando la moltiplicazione delle cosiddette "comunità virtuali". Al loro interno gli individui si incontrano, parlano e discutono intorno a problemi e interessi condivisi. Ma il vincolo che li tiene uniti è labile e inconsistente o è qualcosa di più duraturo, capace di dare vita a una nuova cultura?

E' qualcosa che sta nascendo silenziosamente attorno a noi, di cui a volte siamo testimoni o persino attori inconsapevoli, e che è destinato probabilmente a determinare massicciamente il nostro futuro, e ancor più quello di coloro che ci succederanno: sono le "comunità virtuali", la crescita, nella interazione tra computer e rete, di un pulviscolo di momenti di aggregazione che - a differenza di ciò che è accaduto fino a oggi nella storia della nostra specie - sembrano indifferenti a fattori che fino a ieri contrassegnavano e limitavano il concetto stesso di comunità: cioè la collocazione spaziale, la regionalità, la contiguità fisica, la coagulazione attorno a un epicentro, la condivisione di una ideologia o di un credo. Insensibilmente si sta determinando una transizione dalla collettività indifferenziata di coloro che utilizzano uno strumento di avanzata tecnologia (il telefono, il computer), alla strutturazione sempre più precisa di una serie di "comunità" fondate sullo scambio di informazioni e di opinioni, che agiscono al di fuori dei vincoli che tradizionalmente delimitavano i confini di una comunità.

Il primo e più macroscopico esempio è sotto gli occhi di tutti. L'integrazione tra il computer e la rete telefonica planetaria ha già da qualche anno radicalmente trasformato uno dei motori della nostra civiltà: il confronto e lo scambio di informazioni all'interno delle comunità scientifiche. Ancora nella prima metà di questo secolo i padri della scienza moderna, da Poincaré a Einstein, da Bohr a Heisenberg, a Pauli, si scambiavano opinioni e risultati per lettera, si incontravano e discutevano periodicamente nei congressi scientifici, che allora avevano una funzione non solo turistica: al contrario erano attesi con ansia, rappresentavano l'occasione per uno scambio diretto e un confronto, magari per proclamare risultati innovativi o per discutere una nuova teoria. Perché un'idea, un risultato, una teoria avessero cittadinanza ufficiale bisognava poi attenderne la pubblicazione sulle riviste di settore. Oggi tutto ciò sembra lontano anni luce: l'informazione viaggia in tempo reale, le priorità nelle scoperte o nell'elaborazione di teorie sono stabilite sulla base delle datazioni in rete, le riviste scientifiche viaggiano preliminarmente nella rete, i confronti congressuali restano al più rappresentazioni o riti a uso della stampa, la cui funzione è sempre più quella di cassa di risonanza e di strumento di pressione per l'allocazione delle risorse pubbliche. Il vero lavoro delle comunità scientifiche cammina sulla rete, e costruisce all'interno della rete i suoi nodi specializzati, difficilmente accessibili ai profani1.

Le comunità scientifiche sono contrassegnate dall'uso di un gergo iniziatico, di un linguaggio che definisce i confini del loro interesse. Ma non sono le sole. Ogni comunità si forma sul terreno di un background comune, che è in primo luogo linguistico. «Noi - scrive il biologo Humberto Maturana - in quanto esseri umani, esistiamo nel linguaggio [...] il (nostro) dominio di esistenza fisico, che è un dominio cognitivo, sorge nel linguaggio»2. E più oltre: «Noi esseri umani esistiamo solo finché esistiamo come entità autocoscienti nel linguaggio». Il fondamento della condizione umana è il possesso del linguaggio (parafrasando Cartesio, potremmo affermare: «parlo quindi sono»), vale a dire il possesso di un sistema simbolico attraverso il quale costruiamo quell'universo mentale nel quale si "ricostruisce" il mondo fisico, e se ne indicano le strade di manipolazione e di trasformazione. E' la condivisione di un linguaggio perciò il fondamento primo dell'autoidentificazione di gruppo, della costruzione dell'Io collettivo in cui ogni monade individuale si riconosce e si integra, assumendo spesso da ciò la forza per contrapporsi all'Altro, a chi non appartiene a quel limitato universo i cui confini sono segnati dalla lingua, dalla tradizione, oltre che da caratteri fisici e spirituali. Forse le recenti vicende balcaniche trovano proprio in questo una delle loro radici.

Una comunità, quindi - ci insegna la storia - è possibile e reale nella misura in cui i suoi membri condividono un linguaggio e attraverso questo una rete di riferimenti: una cultura, una visione del mondo, un comune rapporto con l'ambiente, spesso una fede religiosa. Nel momento in cui la comunità si costituisce comincia a vivere di vita propria, ha un suo destino esistenziale, una crescita, uno sviluppo, un declino: una storia, insomma. Via via che cresce e si allarga, proprio come un organismo biologico, la comunità ingloba altri enti relazionali, fa proprie culture diverse, ma anche le omogeneizza, le assimila, le trasforma al proprio interno con una sorta di processo digestivo o simbiotico. E quindi da una parte le elimina, facendole sparire come entità autonome, dall'altra in un certo senso le immortala al proprio interno.

Un processo storico di questo tipo è, ad esempio, la conquista, militare e culturale, della penisola italica da parte di Roma: le guerre di conquista e la progressiva assimilazione degli altri nuclei politici e culturali italici, il confronto prima con Pirro e poi con i Cartaginesi e infine la espansione oltre la penisola, che proprio dalla "digestione" delle realtà etniche e culturali italiche aveva preso forza. La sfera di influenza politica, militare e culturale di Roma si era via via allargata estendendosi oltre il Lazio, inglobando le diverse regioni etrusche, galliche, sannite, greche, integrandole progressivamente in una rete di "alleanze" e dipendenze che non erano solo politiche. Certamente, anche dopo l'assoggettamento Osci, Volsci, Sanniti continuavano a parlare le loro lingue e a venerare i propri dei. Ma la potenza e la pervasività della rete costruita militarmente e civilmente dalla "civitas" romana è tale che le stesse divinità locali (punto di riferimento e di coesione delle singole comunità, spesso a livello poco più che tribale) finiscono per emigrare verso il nodo centrale, a Roma, dove sorgono i loro nuovi santuari, e i loro riti cominciano a parlare latino. Di riflesso, mentre anche gli esponenti delle aristocrazie locali emigrano a Roma (e vi fanno carriera, entrando spesso nel Senato), le lingue locali perdono terreno nei confronti della "koinè" linguistica della rete (il latino), degenerano assorbendo costrutti e idiomatic expression della lingua egemone, e finiscono per venire cancellate di fatto, trasformandosi nel migliore dei casi in dialetti, conservandosi talvolta solo nella toponomastica locale, nei nomi degli attrezzi specifici di quelle culture. Al contrario, l'asprezza delle lotte rinsalda la comunità linguistica latina e romana. In un celebre passo del De rerum natura, Lucrezio descrive la reazione dei romani alla vittoriosa offensiva cartaginese, che metteva a rischio la stessa sopravvivenza della città: «e come noi non tremammo quando i cartaginesi giunsero da tutte le parti a far guerra... e fu dubbio a chi andasse l'imperio della terra»: davanti al pericolo mortale la comunità, pure divisa da feroci contrapposizioni politiche, lacerata già allora da profonde tensioni sociali, reagisce con uno scatto unico, come un animale ferito. Si tratterà di decidere se il mondo parlerà latino o punico...

Sono i linguaggi, quindi, che si configurano come Grandi Attrattori, protagonisti del processo di unificazione e di fondazione di una comunità, i custodi della sua identità. Ma i linguaggi non sono "indifferenti", non sono un medium anonimo: sono portatori di immagini e interpretazioni del mondo, di risonanze affettive, di ricostruzioni delle dialettiche del reale. E si trasformano e modellano - come nota Keith Devlin in polemica con lo strutturalismo linguistico - secondo il contesto in cui si sviluppano: «L'uso della forma logica presuppone che le parole abbiano un unico significato, preciso e stabilito. Ma non è affatto vero. Il significato è un fenomeno molto più complesso. Di fatto, in genere dipende dal contesto, la seconda caratteristica fondamentale della comunicazione, ignorata da Chomsky ma considerata in modo molto serio dai linguisti di oggi»3.

E' lecito quindi domandarsi da quale realtà linguistica traggano legittimità le nascenti "comunità in rete", in particolare quelle non specialistiche (che già posseggono un linguaggio in grado di stabilire confini per i profani), e in quale misura il contesto entro il quale operano (se l'ipotesi di Devlin è esatta), cioè appunto l'uso del computer e della rete, le modella. Parlarsi, scambiarsi informazioni e idee, presuppone un accordo preliminare su un vocabolario, su una sintassi, ma anche su una serie di referenti e di immagini del mondo. «Una comunità virtuale - scrive Pierre Lévy, appassionato sostenitore della "cibercultura", ossia di quella cultura che verrebbe prodotta dalla interconnessione mondiale dei computer - si costruisce su affinità di interessi e conoscenze, sulla condivisione di progetti, in un processo di cooperazione e di scambio, e tutto ciò indipendentemente dalla prossimità geografica e dalle appartenenze istituzionali»4. Secondo i sostenitori della "cibercultura", al suo interno si sviluppano forme di "intelligenza collettiva", di creatività non individuale. «Si può sostenere - prosegue Lévy - che le cosiddette "comunità virtuali" compiano di fatto un'autentica attualizzazione (nel senso di una effettiva messa in contatto) di gruppi umani che, prima dell'avvento del ciberspazio, erano solo potenziali [...] Con la cibercultura si esprime l'aspirazione alla costruzione di un legame sociale, che non sia fondato né su appartenenze territoriali, né su relazioni istituzionali, né su rapporti di potere, ma sul radunarsi intorno a centri di interesse comuni, sul gioco, sulla condivisione del sapere, sull'apprendimento cooperativo, su processi aperti di collaborazione. La tensione verso le comunità virtuali - conclude con uno slancio di ottimismo romantico - si sposa con un ideale di rapporti umani deterritorializzati, trasversali, liberi. Le comunità virtuali sono i motori, gli attori, la vita diversa e sorprendente dell'universale per contatto»5.

In realtà, stando alle esperienze attuali, più che somigliare alla progressiva espansione di un linguaggio attraverso l'egemonia culturale e militare (come dimostra l'esempio di Roma) le comunità virtuali appaiono effimere bollicine che si formano e scompaiono all'interno di quel mezzo "facile" e pervasivo che è la coniugazione di telefono e computer. Un mezzo che garantisce una libertà - anche espressiva - senza precedenti, ma che non sembra configurarsi ancora come linguaggio autonomo, bensì come sommatoria di una serie di prestiti, posti semmai sotto il dominio linguistico dei produttori di software. Le potenzialità (e i pericoli) della "comunicazione universale" sembrano per il momento solo accennate. Ciò che semmai si sta cominciando a configurare è la diffusione di alcuni prestiti linguistici, rivelatori di una potenzialità tuttora non espressa. Il dialogo digitale fa giustizia di strumenti ormai al tramonto, lasciando intravedere un panorama le cui implicazioni non sono ancora chiare.

Un esempio marginale, ma che è la spia della trasformazione in atto dei rapporti, sono le procedure di posta elettronica: «Mi dà il suo indirizzo?» è una antica frase banale, che però oggi acquista un duplice significato. Con il proprio indirizzo si forniscono una serie di coordinate che, mentre consentono all'organizzazione delle poste di recapitare il messaggio al destinatario, contengono informazioni che non sono puramente topologiche. Alcuni aspetti della realtà umana, sociale, linguistica del destinatario sono deducibili dalle informazioni di un indirizzo postale: ad esempio il tipo di paese e di quartiere ove si è collocati, e di conseguenza - per estrapolazione - i contesti entro i quali si opera. Ma non molto di più. Al contrario l'indirizzo in rete è molto più sintetico, eppure in un certo senso più esplicito. Fornisce cioè indicazioni su alcuni caratteri del corrispondente: ci dice che si tratta di un frequentatore della rete, di una persona che usa il pc ed è in grado di utilizzarlo in rete (altrettanto rivelatore è il server). Che ha familiarità con alcune procedure, e che è quindi, sia pure primordialmente, acculturato sui rudimenti delle tecnologie moderne, e disponibile a utilizzarle. E' molto poco: ma disegna un sommario profilo psicologico e sociale che in un certo senso caratterizza l'utente dell'e-mail (cioè, ormai la maggioranza di coloro che operano con strumenti moderni).

Si è parlato molto della psicologia e della sociologia del cibernauta, della sua necessità di elaborare un modo nuovo di interagire. C'è da chiedersi se in effetti siamo in presenza di un processo di trasformazione che si avvia a divenire "linguaggio", e quindi cultura, assorbendo o eliminando i moduli culturali entro i quali ci siamo formati. Al di là di entusiasmi eccessivi (e un po' ridicoli) o degli anatemi di chi non accetta l'inesorabile tramonto di un'epoca, le comunità virtuali per quanto effimere sono come una febbre della cultura, il segnale di qualcosa che ribolle al di sotto della pelle della nostra specie. Dipenderà da noi se farne un momento di crescita nella diversità degli approcci, piuttosto che uno strumento di passiva omologazione.

Note

1 Vedi, a proposito delle comunità scientifiche on line, l'articolo di P. Greco a pag 62 di questo numero di Telèma.

2 H. Maturana, Autocoscienza e realtà, Cortina, Milano, 1993, pag 7.

3 K. Devlin, Addio, Cartesio, Bollati Boringhieri, Torino, 1999, pag 237.

4 P. Lévy, Cybercultura, Feltrinelli, Milano, 1999, pag 124.

5 ivi, pag 126. Si veda anche quanto lo stesso Pierre Lévy ha scritto in C'è una "intelligenza collettiva" nel futuro dell'evoluzione umana pubblicato in questo numero di Telèma.