Jader Jacobelli

La cultura dell'immagine
è più attraente, ma inganna

Ciò che si vede può sembrare oggettivo, ma si tratta di una impressione sbagliata. La vista, definita il più stupido dei sensi, spesso ci induce in errore e la televisione non è sempre uno specchio fedele: è meglio diffidarne. Siamo convinti di "partecipare" alle vicende, ma ci limitiamo ad assistervi.

Johann Wolfgang Goethe, che pur non aveva nel suo studio il televisore e non era un iconoclasta bizantino dell'VIII secolo scriveva: «A che serve dominare la sensualità, coltivare l'intelletto, riconoscere alla ragione la sua supremazia? La forza dell'immagine è in agguato, come il più forte nemico. Essa possiede per sua natura una tendenza irresistibile all'assurdo la quale, vincendo ogni costrizione della cultura, riemerge con l'innata crudezza dei selvaggi che amano le smorfie». Chissà che cosa scriverebbe oggi con tutte le immagini del mondo in casa.
Senza essere apocalittici, è indubbio che l'informazione per immagini, che nella televisione rappresenta gran parte dell'informazione del nostro tempo, e ancor più ne rappresenterà nel futuro digitale che è alle porte, è fortemente ambigua. Senza riferirci all'uso ingannevole che si può fare di ogni forma di comunicazione, anche delle parole, quella per immagini ha una sua polivalenza semantica di gran lunga maggiore di ogni altra, perché meno ovvia, e quindi la sua ambiguità si moltiplica.
Il fatto è che ciò che si vede, oltre che più attraente, appare ingannevolmente più reale, più oggettivo, meno falsificabile. Avviene così che oggi i codici simbolici e i modelli culturali in base a cui ci comportiamo siano ormai quasi tutti iconologici, stampa compresa. Se poi si considera la gran parte che ha nella loro formazione la pubblicità, non può meravigliare che essi siano soprattutto codici ludici, estetici, economici, anziché etici e sociali.

L'iconografia televisiva è un pantografo rispetto a quella semplicemente visiva. I nostri occhi vedono in genere a "grandangolo", mentre l'occhio delle telecamere è sempre tentato dal primo piano, dal primissimo piano, ingigantendo spicchi di realtà che così disaggregata rasenta l'irrealtà. Basta poi mutare inquadratura, come sa bene chi effettua i montaggi alla moviola, per passare discrezionalmente dal "normale" all' "anormale", dal consueto al singolare, dal preoccupante al drammatico, dal drammatico al tragico. E la tentazione è sempre verso l'eccezionale, l'eccentrico, il trasgressivo, l'emotivo, perché ciò suscita l'interesse dei più. Blob non è una trasgressione, ma forse la più compiuta forma di espressione televisiva, appunto perché la più allusiva, la più ambigua. Il medium più pervasivo e influente di cui disponiamo diviene perciò, non per un suo uso intenzionalmente perverso, ma per ragioni quasi funzionali, incentivo al degrado invece che al miglioramento. Dobbiamo riconoscere che esso è, quasi sempre, più efficace nel raccontare il male che il bene.
Se la Tv non può essere "pedagogica", volere che sia addirittura il contrario è insensato e irresponsabile. Concediamo che essa abbia un suo autonomo linguaggio, ma non si può sopportare che esso sia il linguaggio programmato della volgarità, come invece sempre più spesso constatiamo. La componente visiva di questo mezzo multiforme fa certamente premio su quella auditiva, tanto che ciò decretò, malauguratamente, il ko inflitto alla radio, medium meno coinvolgente, meno enfatico, meno divistico, ma più razionalmente mediato.
La simulazione è implicita nell'immagine, la cui esaltazione è quella del "doppio", quella del caleidoscopico. L'occhio, che è stato definito il più stupido dei sensi, il meno intellettualmente dotato perché il meno bisognoso di una mediazione critica, si è preso la sua rivincita sull'orecchio, ma la "cultura dell'immagine" a cui ha dato vita rischia di essere un'incultura. Conoscere per immagini, secondo le ricerche didattiche più recenti, è un conoscere che, nel tempo breve, appare più incisivo, ma che nel medio termine si rivela di più vaga memorizzazione e di spessore cognitivo ridotto. Fortuna vuole che le immagini possono essere registrate. Se non lo fossero, si scioglierebbero come cera e il nostro sapere visivo sarebbe sempre una lavagna non scritta.

La convinzione di "partecipare" di più alle vicende quotidiane, grazie alla televisione, poggia sulla confusione tra "partecipare" e "assistere". E' vero il contrario: assistiamo di più ma partecipiamo di meno. Non siamo onnipresenti, ma soltanto onnivedenti, come se il mondo si rifrangesse in tanti specchi e, artificiosamente moltiplicata, la realtà si dissolvesse. Con le parole, per quanto insidiose, non si sarebbe potuto creare quel mondo "virtuale" che le nuove tecnologie rendono possibile. Le immagini si prestano invece alle più demoniache adulterazioni. Il discorso verbale è quasi sempre dialettico; il racconto visivo non lo è quasi mai. Ad alto livello il gioco delle immagini diviene arte, l'arte cinematografica. A livello corrente, soltanto un patchwork.
Il mondo delle parole è vero o falso. Quello delle immagini, "virtuale", né vero, né falso, ma inaffidabile. Dicono i pubblicitari, coloro che trescano di più con le immagini, che non si vendono più prodotti, ma marchi, cioè immagini, al punto che la pubblicità sta divenendo reale e la realtà virtuale. Vale l'apologo di Borges, di quei cartografi che per compiacere il loro imperatore disegnarono carte geografiche del suo impero universale a dimensione reale, tanto da ricoprirlo tutto, e così facendo, lo resero impraticabile. E vale anche l'osservazione di J.M. Domenach secondo cui oggi conosciamo ciò che avviene più lontano da noi, ma non ciò che accade ai nostri vicini di casa, per rilevare la disumanità del conoscere televisivo.
McLuhan, come è risaputo, classificava la Tv tra i media "freddi", tanto fredda che il pericolo è quello di mitridatizzarci dinanzi a tutto ciò che di male vediamo accadere nel mondo e che il teleschermo porta quasi ossessivamente nelle nostre case. Affondati in poltrona, la realtà ci scorre davanti in forma di film e la nostra commozione è passiva, non si traduce in alcuna azione o reazione, anzi si sta tramutando in fastidio, tanto che è sempre più insistente la richiesta dei telespettatori di ridurre le notizie "negative", secondo l'invocazione di Garcia Lorca di fronte alla morte di Ignazio: «No, non voglio vederlo!».
Finirà che la televisione, per non perdere audience, ci informerà soltanto di ciò di cui vogliamo essere informati compiendo un altro passo verso quella falsificazione del reale che in fondo è scritta nel suo Dna. Non per nulla i mass-mediologi per definire la specificità dell'informazione televisiva hanno creato il termine di infotainment, commistione di information e di entertainment, dove il secondo termine, che noi traduciamo in spettacolarizzazione, finisce col mangiarsi il primo.

Leggo in un recente bel libro di uno scienziato, Giuseppe Caglioti, Eidos e psiche. Struttura della materia e dinamica dell'immagine: «Le immagini ci colgono indifesi e impreparati. Fatte per colpire la fantasia, le immagini stimolano i meccanismi della percezione, attivano l'inconscio, polarizzano il pensiero, scatenano le emozioni... L'enorme diffusione delle immagini, rapida e capillare al tempo stesso, ci condiziona a livello personale, sociale e culturale. Ci uniformiamo remissivi a questo comportamento senza neanche accorgerci di quanto siamo indifesi e impreparati. E' il momento di voltare pagina».
Ma che cosa può significare "voltare pagina"? Rinunciare alla Tv? Oscurare le sue immagini? Nulla di ciò è proponibile. Anzi con le innovazioni tecnologiche che si preannunciano le immagini televisive si moltiplicheranno, diverranno sempre più suggestive, tutte ad alta definizione, il ritmo della loro alternanza si farà sempre più serrato secondo i montaggi degli spot pubblicitari e la computer graphic consentirà di elaborarle in modo tale che diverrà quasi impossibile distinguere il reale dall'irreale, e il reale finirà con l'essere ciò che la Tv legittimerà come tale.
In questa situazione, in questo stato di necessità, occorre impostare una vera e propria strategia difensiva. Anche se disperato, dobbiamo rivolgere ancora una volta un appello ai suoi operatori perché divengano sempre più consapevoli dell'intrinseca pericolosità del medium che gestiscono, della sua incidenza nel campo dei comportamenti, del suo condizionamento dell'opinione pubblica, e lo usino con il massimo di responsabilità e di cautela. Riequilibrino il rapporto immagine-testo perché sia il testo il riferimento di quella, e non viceversa. Non dimentichiamo che la Tv non si limita mai a informare, perché ogni suo prodotto concorre a formare un modello. Si comportino come quel direttore della Bbc che diceva: «Noi siamo come degli impiegati di banca. Sappiamo che il denaro che maneggiamo non è nostro, ma dei nostri clienti». Abbiano anche un po' di rispetto e di clemenza per i telespettatori fra cui siedono anche i loro familiari, i loro figli.

Ma se gli appelli agli operatori non bastano, occorre che siano i telespettatori a imparare a convivere con un medium che è più simile alla tigre che al gatto. Non lo liscino troppo, non si espongano a tempo indeterminato, facciano uso del telecomando per scegliere il meglio e non il peggio, imparino a conoscerlo per non esserne fascinati. Siano, insomma, critici. Infine, tocca ai governanti dettare una disciplina del sistema televisivo che impedisca il suo strapotere, che preveda dei paletti, che non gli riconosca "licenza di uccidere", che proibisca di inquinare l'etere. Ripetiamo sempre che esso è "di tutti", ma di fatto è concesso soltanto alla discrezionalità di alcuni. Popper pretendeva che questi dovessero avere una "patente" per esercitare la professione. Forse era soltanto la provocazione di un filosofo giustamente allarmato. Altri, più moralisti, hanno suggerito un giuramento mass-mediologico. Ci possiamo accontentare di una professionalità più consapevole, accompagnata da una maggiore vigilanza sociale sui loro comportamenti. Non dimentichiamo, comunque, che basterebbe spostare con il telecomando un milione di telespettatori da un programma a un altro per farsi giustizia da soli.
E' stato autorevolmente ricordato di recente, addirittura dal Papa, che se va rispettata anche la libertà del mercato televisivo essa non può contrapporsi e limitare il diritto del telespettatore di essere informato correttamente e di essere intrattenuto senza volgarità. L'immagine, proprio perché è costitutivamente ambigua e spericolata, sappia di essere una vigilata speciale se non vuole correre il rischio... degli arresti domiciliari.