José Saramago - La Caverna - Einaudi, Torino, 2000, pp. 335.

A chi non abbia letto in precedenza nessun libro di Saramago e non si lasci guidare nelle sue scelte dai riconoscimenti letterari, per quanto prestigiosi essi siano, il nuovo romanzo dello scrittore portoghese si offre con una diversa credenziale: la ripresa del mito platonico della caverna e la dichiarata appartenenza alla tradizione culturale in cui si riconosce l'Occidente europeo.
Accanto a questo tributo, che ormai proviene solo da scrittori di una certa levatura, il romanzo afferma un'altra esigenza, che ispira da sempre l'umanesimo occidentale: che la ragione non sia apologia del presente, delle sue contraddizioni e irrazionalità (Horkheimer). Il romanzo di Saramago restituisce alla letteratura il suo compito di critica del presente e delle sue contraddizioni; crea, come tutte le grandi opere narrative, un'utopia, un mondo possibile e diverso che rende più profondo il nostro sguardo sul mondo reale.
Al centro del romanzo un'opposizione: da una parte Cipriano Algor, portatore di un'umanità minima ma sostanziale (sarebbe solo un vasaio, se il suo mestiere non fosse paragonato dall'autore, con benevola esagerazione, all'atto creativo di Dio, che plasmò l'uomo dal fango soffiandoci sopra lo spirito vitale) e dall'altra il Centro, un'entità disumanante, una città-centro commerciale non edificata per l'uomo ma contro l'uomo. Il primo sa attribuire valore all'attività umana, al lavoro e agli affetti; il secondo riconosce esclusivamente il profitto e sostituisce i bisogni e i sentimenti reali con bisogni ed esperienze artificiali.
Saramago ricorda a tutti gli esaltatori delle magnifiche sorti e progressive dell'Occidente industrializzato e tecnologico che bisogna salvare la propria umanità da un mondo capace solo di produrre e consumare merci; che la realtà non è quella mostrata dai cartelloni pubblicitari; che la verità non è l'ombra proiettata dal fuoco sul fondo della caverna.
Per queste ragioni credo che il libro vada letto, anche se  - ma qui ognuno giudicherà per conto suo - la qualità della scrittura non è altissima.

Aldo Filosa.








La caverna, ecco l'ultimo capitolo di una trilogia "involontaria", trilogia a posteriori. Perfetta solo alla fine, più forte di qualsiasi intenzione. Pienamente realizzata solo nella definitiva coincidenza di caso e ispirazione.
Dopo i romanzi Cecità (1995) e Tutti i nomi (1997), ma soprattutto dopo il Premio Nobel (1998) che interrompe insidiosamente il corso normale della vita di uno scrittore, ecco La caverna, ultimo viaggio della scrittura di Saramago attraverso le sconfinate miserie dell'uomo moderno, l'automa in soccorso del quale giungono le parole di Saramago, originate da un'infaticabile speranza.
Certo, il gioco di specchi - tra le verità e le apparenze - del mito di Platone, ma ancora di più, si può trovare nella teogonia di Saramago: la rivendicazione di altri miti, un'altra fondazione come il mito della creazione dell'uomo a partire dalla creta, con tutto il suo drammatico appello di giustizia.
La caverna ovvero il centro del mondo, con le sembianze affatto casuali di un centro commerciale. Il Centro, orchestra dei destini dell'umanità, motore che tutto muove e tutto assorbe, irresistibile richiamo, buco nero, allettante promessa per una felice vita organizzata, alleviata da ogni esitazione.
I tre protagonisti della vicenda, assillati dall'instabile rapporto con il Centro, in trappola: è il Centro che acquista i manufatti di creta di Cipriano Algor e Marta; è presso il Centro che Marcal Gacho lavora come guardiano; ma è sempre il Centro che rifiuterà il lavoro di Algor e Marta, e subito dopo però, darà a tutti e tre la possibilità di una nuova vita.
La caverna come salvezza e fine dell'uomo moderno. Già, perché non c'è salvezza senza abbandono e obbedienza. E non c'è salvezza senza Legge né perdono ed è proprio questo che il Centro assicura: al di là di ogni morale, al di là del bene e del male: una nuova vita, dove tutto si può avere se a tutto si è disposti a rinunciare. "Il Centro, da perfetto distributore di beni materiali e spirituali qual è, ha finito per generare da se stesso e in se stesso, per pura necessità... qualcosa che partecipa della natura del divino".
Ancora una volta la tirannia del castello di Kafka e l'impenetrabilità de Il processo, l'illimitato della biblioteca di Borges e la cupa armonia del Grande Fratello orwelliano.
Il "centro", parola debordante, inesauribile. Termine-soglia per indicare la catastrofe di senso subìta da ogni parola, sintatticamente e semanticamente vincolata al "centro".
Il Centro, "centro" di ogni frase, fuoco eccentrico sempre in movimento e proprio per questo sempre al centro, potentemente in agguato al termine di ogni frase. Termine naturale per ogni pensiero, per ogni emozione: desiderio speranza, disperazione malinconia.
Il centro è meta e orizzonte di ogni azione. Presente anche quando non si vede. Mostruoso universo barocco in perenne espansione, che si ramifica in ogni direzione nello spazio, attraverso "pianerottoli... gallerie... negozi... corridoi... scalinate... scale mobili... caffé... ristoranti..." e in ogni direzione nella psiche, attraverso l'oceanica varietà di prodotti che possono soddisfare ogni desiderio, "una giostra coi cavalli... un poligono da tiro... una piramide d'Egitto... una muraglia cinese... pioggia vento e neve a discrezione... un fiordo... un cielo d'estate con nuvole bianche che si muovono...".
Vortice semantico e strutturale dell'opera. Parola ripetuta fino alla sordità, all'assuefazione. Cortocircuito labirintico: "Qualsiasi strada si prenda va a finire al Centro".
Tuttavia Saramago non rinuncia mai alla speranza, che qui assume le sembianze di un cane di nome Trovato, testimone misterioso ed innocente. La figura del cane è un vero e proprio enigma che si sposta da un capitolo all'altro di questa trilogia, portando ovunque la parola, fonte segreta di ogni residua umanità. Presenza mistica, insondabile, alla stregua di leggendarie creature, si oppone tenacemente alla divinità del Centro, lotta contro la malattia di questo tempo, insospettabile difensore di ciò che resta dell'uomo.

Alessandro Fanfoni

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